Pubblicato il: 01/09/2019
In laboratorio

In laboratorio

Il propranololo, un classico beta-bloccante già in commercio, riduce significativamente la formazione dei cavernomi cerebrali.

A dimostrarlo arriva un recente studio, condotto da IFOM e Università Statale di Milano e pubblicato su Nature Communications.

Lo studio – guidato da Elisabetta Dejana, docente di Patologia generale presso il dipartimento di Oncologia ed Emato-oncologia della Statale e direttrice del Laboratorio di Angiogenesi presso l'Istituto FIRC di Oncologia Molecolare (IFOM)  rappresenta una grande novità nell'ambito della caratterizzazione e delle possibili strategie terapeutiche per i cavernomi cerebrali, perché offre la prospettiva di un’alternativa terapeutica alla craniotomia ed è un promettente caso di drug repositioning, ovvero di un farmaco già approvato che potrebbe essere utile anche a un altro scopo terapeutico. Alla ricerca seguirà ora uno studio clinico in collaborazione con il dottor Roberto Latini dell’Istituto Mario Negri di Milano e sostenuto dall’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), con una campagna di arruolamento ancora aperta fino al 30 settembre 2019.

I cavernomi cerebrali sono delle malformazioni dei vasi cerebrali, che possono essere di natura congenita o sporadica. Hanno una forma a grappolo, simile a lamponi, e sono composti da acini gonfi di sangue chiamati “caverne” e rivestiti da una parete endoteliale estremamente sottile.

I pazienti affetti da questa patologia sono suscettibili a emorragie intracerebrali alle quali possono associarsi deficit neurologici, crisi epilettiche, mal di testa ricorrenti e, nei casi peggiori, anche paralisi o ictus emorragico.

Una volta effettuata la diagnosi tramite risonanza magnetica e analisi genetica delle mutazioni responsabili della malattia, l’unico trattamento possibile finora è la rimozione chirurgica tramite craniotomia, una procedura invasiva e particolarmente critica se il paziente è un bambino o se il cavernoma è ubicato in un’area cerebrale delicata o nel midollo spinale.

Grazie al lavoro del gruppo di ricerca IFOM-Università Statale guidato dalla professoressa Elisabetta Dejana, esperta di angiogenesi tumorale, si stanno raccogliendo informazioni preziose per conoscere i meccanismi molecolari alla base della formazione dei cavernomi e per individuare, tra i farmaci esistenti, possibili approcci terapeutici alternativi alla chirurgia, meno invasivi e più risolutivi.

Già nel 2013, in un articolo pubblicato sulla rivista Nature, le ricercatrici e i ricercatori di IFOM-Università Statale avevano definito i cavernomi come tumori benigni formati da cellule endoteliali trasformate che diventano più mobili, invasive e che vanno incontro a una crescita incontrollata.

La causa della trasformazione è stata individuata nell’assenza di una delle tre proteine che formano il complesso CCM (Cerebral Cavernous Malformation) e che sono codificate da tre geni chiamati CCM1, CCM2 o CCM3.

Con questo recente articolo, pubblicato su Nature Communications, il team della professoressa Dejana aggiunge un tassello alla caratterizzazione molecolare dei cavernomi: un contributo che si può rivelare molto importante per caratterizzare più precisamente la patologia e individuare un approccio terapeutico alternativo alla neurochirurgia.

Quanto emerge dalle ultime ricerche che abbiamo condotto in laboratorio – afferma Elisabetta Dejanaè che, dal punto di vista molecolare, vi sono similitudini sorprendenti tra il cavernoma e un tumore benigno”.

La formazione dei cavernomi partirebbe infatti da una sola cellula, che mantiene nei vasi del cervello delle caratteristiche di immaturità. Questa cellula, se portatrice di una mutazione in uno dei tre geni implicati nella CCM è capace di proliferare vigorosamente e di creare le grosse malformazioni tipiche del cavernoma. Così come nei tumori le cosiddette cellule staminali tumorali, crescendo, attraggono verso di sé altre cellule endoteliali normali contribuendo, in questa maniera, alla crescita delle malformazioni.

Abbiamo sospettato fin dall'inizio – spiega Matteo Malinverno, il primo autore dell’articolo – che la responsabilità di queste malformazioni fosse legata alla proliferazione delle cellule staminali endoteliali presenti nel cervello, dove sono in numero più elevato che in altri organi. Dopo aver indotto la mutazione di uno dei geni CCM in topi di laboratorio abbiamo potuto monitorare i tempi di formazione dei cavernomi e, grazie a una tecnica che permette di seguire il destino di ogni singola cellula, abbiamo ottenuto conferma sperimentale che l'iniziale formazione dei cavernomi è effettivamente dovuta a una cellula sola, immatura, che entra in una fase di espansione clonale”.

L'aspetto interessante – continuala professoressa Dejanaè che, una volta identificate, queste cellule potrebbero essere eliminate selettivamente, bloccando così la formazione dei cavernomi. Il tutto senza creare grossi danni ai vasi normali del cervello”.

Grazie all’uso di topi di laboratorio si è riusciti, dunque, a ricreare il decorso della patologia umana e anche a verificare l'efficacia di farmaci potenzialmente utili a sostituire la chirurgia nella cura del cavernoma. Sorprendentemente, il propranololo, un classico beta-bloccante già disponibile in commercio, riduce significativamente la formazione di cavernomi nel topo. “Questa osservazione – conclude Elisabetta Dejanaci ha permesso di  programmare uno studio clinico controllato in collaborazione con il dottor Roberto Latini dell’Istituto Mario Negri. Grazie a questo studio dovremmo raccogliere informazioni importanti sugli effetti di questa terapia nei pazienti.

La ricerca è stata possibile grazie al sostegno di AIFA, Fondazione AIRC, ERC (European Research Council) e Fondazione Cariplo.

La campagna di reclutamento per lo studio clinico

Lo studio clinico sull’uso del propranololo in pazienti con cavernomi cerebrali è stato finanziato dall'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e include 6 diversi centri clinici in Italia: il Policlinico di Milano, l’Istituto Besta, l’Ospedale Niguarda di Milano, l’Università Cattolica di Roma, l'Ospedale Casa di sollievo della sofferenza di San Giovanni Rotondo e l’Università di Messina.

Lo studio avrà una durata di 2 anni e consisterà nell’assunzione quotidiana del farmaco accompagnata da diverse indagini, tra cui una risonanza magnetica annuale centralizzata per tutti i pazienti al Policlinico di Milano, e dei prelievi che consentano l’identificazione e la caratterizzazione di nuovi marcatori diagnostici e terapeutici.

A oggi sono stati arruolati 69 pazienti volontari. La campagna di reclutamento si estende a un totale di 80 volontari e chiuderà il 30 settembre 2019 (per informazioni scrivere a roberto.latini@marionegri.it o chiamare 3396092097).

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