Pubblicato il: 18/07/2018
Elena Cattaneo con alcuni bambini del progetto Abrazos

Elena Cattaneo con alcuni bambini del progetto Abrazos - Gionata Coacci, 2018

Elena Cattaneo – farmacologa dell'Università Statale di Milano e, con il suo gruppo di ricerca, tra le massime studiose della Còrea di Huntington – è appena rientrata da una trasferta molto speciale a Barranquilla, in Colombia, dove – dal 7 al 10 luglio – si è tenuto il primo congresso in territorio sudamericano sulla grave malattia neurodegenerativa.

 

Professoressa Cattaneo, perché un congresso sulla Còrea di Huntington in America Latina?

L'evento in America Latina non è che la continuazione del progetto HDDENNOMORE, lanciato lo scorso anno e che, il 18 maggio 2017, ha portato a Roma, da Papa Francesco, malati venezuelani, colombiani, dell'intera America Latina e di altre decine di Paesi del mondo, per offrire una forte vicinanza a popolazioni, come quella colombiana e venezuelana, tra le più colpite da questa malattia genetica gravemente neurodegenerativa. E il congresso a Barranquilla, con interventi sugli ultimi sviluppi della ricerca sulla Còrea di Huntington, non poteva che essere il modo migliore per far sentire la nostra vicinanza di ricercatori e medici ai malati, a chi se ne prende cura, alle famiglie e alle associazioni di pazienti.
 

Cosa significa avere la Còrea di Huntington in questi Paesi?

Significa che in villaggi di poche migliaia di persone, a volte, i malati arrivano a essere centinaia, mentre i medici si fermano a numeri bassissimi: in Colombia sono appena 300, di cui solo 10 specializzati in disturbi del movimento, mentre in Venezuela si contano sulle dita di una mano. L'Huntington è una grave malattia che, associata alla povertà diffusa, si traduce non solo nell'impossibilità di accesso alle cure ma anche in stigma, isolamento, vergogna. In alcune comunità sudamericane i malati sono ancora identificati come "indemoniati" oppure succede, soprattutto in Colombia, che se la moglie sviluppa i sintomi dell'Huntington, il marito abbandoni la famiglia, in una sorta di "ripudio", lasciando che i figli vivano soli per strada. 

Il suo laboratorio è da anni interamente dedicato allo studio della Còrea di Huntington. A che punto è la ricerca su questa grave malattia?

Innanzitutto è necessario ricordare che la ricerca condotta in Occidente su questa malattia - scoperta del gene, studio dei suoi effetti patologici, sviluppo del test genetico e diagnosi certa della malattia, fino ai farmaci sintomatici e all'assistenza - non sarebbe stata possibile senza la generosa donazione, tanti anni fa, del sangue delle migliaia di malati in Paesi come Venezuela e Colombia. Questo congresso di Barranquilla, come l'incontro con Papa Francesco del maggio 2017, è stato un atto, direi, dovuto per ricordare chi ha permesso di raggiungere questi risultati, almeno nei Paesi sviluppati. In particolare, nel nostro laboratorio di Biologia delle Cellule Staminali e Farmacologia delle Malattie Neurodegenerative dell’Università Statale siamo impegnati su circa 20 progetti di ricerca sull'Huntington e, come altri colleghi in Italia e nel mondo, studiamo i meccanismi alla base della malattia, ma anche l'evoluzione del gene, così come lavoriamo con le cellule staminali, quindi sulla possibilità di generare i neuroni che muoiono nella malattia.

Qual è stata l'accoglienza di malati e famiglie?
Abbiamo incontrato 44 bambini del progetto Abrazos e 30 giovani adulti della Huntington's Disease Youth Organization (HDYO), tutti di famiglie con Huntington, quindi a rischio di avere il gene mutato, alcuni già con i primi sintomi. Dopo i due giorni di incontro medico-scientifico, promossi in collaborazione con l'Associazione colombiana di Neurologia, il terzo l'abbiamo trascorso interamente con i pazienti in una struttura adibita a ospedale nel villaggio di Juan de Acosta. Questi malati e le loro famiglie non chiedono nulla, si limitano a guardarti, nella speranza di un segnale per loro, di una cura o semplicemente di un adeguato supporto a una quotidianità fatta di problemi disumani, dubbi e paure. La notizia della presenza dei medici stranieri, poi, aveva fatto il giro della regione: oltre 500 persone, anche non malate, sono arrivate in ospedale solo per incontrarci

Cosa l'ha colpita di più di questa esperienza sul campo?

L'umanità, la necessità del contatto, la sincera gratitudine, ma anche la semplicità più autentica espressa dai malati e dai propri familiari, attraverso abbracci, canti e balli. Siamo partiti dall'Italia (e non solo) carichi di giochi, vestiti, persino barattoli di Nutella, tutto magicamente incastrato per farlo entrare in valigie extralarge. Nelle borsine blu della Statale, che ci ha voluto mettere a disposizione il Cosp, è entrato di tutto, persino dentifrici e spazzolini, visto che un tubetto di dentifricio in Venezuela costa quanto il salario mensile di un operaio. E poi i volti sorridenti nel vedere el video de la Universidad de Milán, così ribattezzato dai partecipanti al congresso, che è stato realizzato dal nostro laboratorio, presente a Barranquilla anche con una donazione per l'assistenza e l'acquisto di medicinali destinata al dottor Gustavo Barrios, di Bogotà, che segue i malati di Huntington in quella parte di Colombia.

Ed ora, cosa vi attende nel prossimo futuro?

A livello italiano, insieme ad Anna Rita Bentivoglio dell'Ospedale Gemelli di Roma e ad Alba di Pardo e Vittorio Maglione dell'Istituto Neurologico Mediterraneo (Neuromed) di Pozzilli che erano con me a Barranquilla, stiamo programmando come intervenire in modo coordinato per strutturare il primo livello di aiuto ai malati di quei villaggi. Queste persone devono poter beneficiare dei primi farmaci specifici per la malattia, e a noi spetta lavorare per arrivare a ottenere la distribuzione agevolata di questi farmaci nei Paesi in via di sviluppo, come già fatto, circa 30 anni fa, per l'HIV. Un ruolo di primo piano in questo ambito è svolto anche dall'Associazione Huntington Onlus, impegnata su un faticoso lavoro di sensibilizzazione della comunità civile e presente anche lei a Barranquilla con Maria Grazia Fusi, fondatrice e membro del direttivo di Huntington Onlus, insieme a fotografi e videomaker chiamati proprio per documentare le storie dei malati di Còrea di Huntington in America Latina, perché nulla vada perduto.

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