Pubblicato il: 23/02/2023
Immagine tratta da Pixabay

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Sono stati presentati all’Università Statale di Milano i risultati della ricerca che ha analizzato la discriminazione nell’agire istituzionale, realizzata dal sociologo Maurizio Ambrosini, docente dell’Ateneo e del Centro studi Medì.

L’indagine promossa all’interno del progetto LAW - Leverage the Access to Welfare si è posta l’obiettivo di analizzare la discriminazione di cui sono vittima i migranti nell’accesso alle misure di welfare e al mercato del lavoro. A tal proposito sono state raccolte le testimonianze - tramite un questionario approfondito - di 522 cittadini di origine straniera.

L’indagine si è mossa nel campo della discriminazione percepita, rilevando quindi un’esperienza soggettiva che può anche non configurarsi in termini giuridici, ma che fornisce un quadro sul vissuto delle persone di origine immigrata nel nostro paese. Al di là dei gravi episodi di discriminazione (che capitano meno frequentemente), a colpire è semmai è lo sguardo diffidente e sminuente delle persone nel vivere quotidiano, infatti essere trattati con scortesia è una situazione vissuta da 7 intervistati su 10 e sempre 7 intervistati su 10 hanno risposto: ““le persone si comportano come se pensassero che io non sia intelligente”.

Gli ambiti in cui le discriminazioni sono più marcate sono in ordine decrescente: l’housing discrimination che si verifica soprattutto nella ricerca di una casa in affitto (situazione subita dal 40% degli intervistati), la discriminazione sul lavoro (è capitato ad un terzo degli intervistati), nel rapporto con gli uffici pubblici (33%), sui mezzi di trasporto pubblici (31%), in ambito sanitario (30%), nel rapporto con i servizi privati (26% e con le forze di polizia (25%).

Le ragioni alla base di queste discriminazioni percepite si legano soprattutto a quattro fattori: l’essere straniero (il 30% delle risposte), l’accento o il modo in cui si parla l’italiano (16%), il colore della pelle (13%), il paese di origine (12%) e le credenze religiose (8%).

Sul lavoro le situazioni discriminatori più frequenti sono state: non poter accedere ad un concorso pubblico senza la cittadinanza italiana” (quasi 4 intervistati su 10 del campione), aver svolto un colloquio in azienda ma non essere stati assunti pur avendone le qualifiche (3 su 10), sino a situazioni di discriminazione più palese dove l’azienda ha fatto intendere che non assume stranieri (è capitato a 3 persone si 10).

Per chi riesce a ottenere un impiego, le irregolarità contrattuali sono purtroppo piuttosto frequenti: 1 lavoratore su 2 ha affermato di lavorare o aver lavorato senza un contratto di lavoro (47% dei rispondenti) e con un contratto parziale (c’è un contratto, ma in busta paga sono segnate meno ore di quelle che effettivamente sono svolte) (37%).

Un generale senso di inferiorizzazione emerge dalle parole degli intervistati quando hanno potuto portare le loro narrazioni: l’aspetto citato maggiormente dagli intervistati è “la mancanza di rispetto” sottesa a commenti sgradevoli, atteggiamenti scortesi, che, anche quando non si trasforma in condotte discriminatorie vere e proprie, trasmette comunque una svalutazione sociale dell’altro e contribuisce a perpetuare una rappresentazione a distorta di questa parte della popolazione. Emblematico il commento di un intervistato che scrive “mi vedono solo come un operaio” e con un’unica frase riassume tutto lo svilimento che la società ricevente opera nei confronti dei migranti, riducendoli a “braccia utili all’economia”, tollerati perché (e sinché) funzionali al tessuto produttivo del paese, rimarcando una precisa stratificazione sociale che vede un “loro” e un “noi” in un rapporto immutato di dominanza.

L’accesso alla casa è una delle questioni nodali, in particolare la ricerca di una casa in affitto è uno degli aspetti dove si individuano maggiori condotte discriminatorie; il 95% degli intervistati ha vissuto discriminazioni più o meno esplicite.

A due intervistati su tre l’affitto di un alloggio è stato precluso perché il proprietario non era disposto ad affittarlo ad una persona straniera. Altrettanto diffuso è il caso, anch’esso di discriminazione diretta, dove il padrone di casa chiede garanzie aggiuntive (ha riguardato 1 intervistato su 2). Sulla stessa scia si pongono quei comportamenti che il proprietario mette in atto in base al presupposto che un immigrato, in quanto tale, sarà meno puntuale nei pagamenti o arrecherà maggiori danni all’appartamento, motivo per cui chiede il versamento di un numero più alto di mesi di anticipo (è capito al 29% degli intervistati) o addirittura richiede un affitto più alto (28%).

Le discriminazioni possono essere operate anche nel rapporto con la Pubblica Amministrazione ogni volta che un ente pubblico o una qualsiasi altra istituzione manca di fornire un servizio appropriato e professionale o prevede una norma/regolamento che pregiudica una particolare categoria di persone. Le forme di discriminazione istituzionale non si esprimono solo a livello legislativo, ma comprendono anche tutti quei comportamenti o quelle prassi degli attori istituzionali che impongono condizioni più svantaggiose ad un cittadino straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero. Si pensi, ad esempio, all’operatore di uno sportello pubblico che assume atteggiamenti scortesi, poco rispettosi e persino negligenti, tali da porre alcuni utenti in una condizione di oggettivo svantaggio nella fruizione di un servizio. Le situazioni che emergono con maggior frequenza sono il fatto di essere trattati con molta scortesia (denunciato da 6 intervistai su 10). La Questura in particolare emerge come l’ufficio in cui gli intervistati hanno sperimentato maggiori situazioni discriminatorie.

Nell’ambito delle istituzioni pubbliche un rapporto specifico è quello con le forze di polizia, elemento nevralgico nella gestione del fenomeno migratorio: qui entrano in gioco i processi di etichettamento che definiscono la rappresentazione del potenziale criminale e orientano l’operato delle forze dell’ordine cercando di massimizzare la probabilità di selezionare, tra i passanti, quelli che potrebbero risultare pericolosi. Complessivamente vengono fermati più spesso gli africani e gli asiatici, con importanti differenze tra aree di provenienza: marocchini, tunisini, egiziani, gambiani, ecuadoriani, bangladesi, turchi e albanesi dichiarano più degli altri intervistati di venire fermati per strada per il controllo dei documenti.

Situazioni discriminanti si verificano anche nei servizi privati quando le persone fruiscono di servizi di pubblica utilità nella loro vita quotidiana: in banca, al patronato e in centri di assistenza fiscale, nei servizi assicurativi, ecc. Almeno 3 persone su 4 hanno vissuto almeno un episodio di discriminazione in queste realtà.

L’indagine ha approfondito anche la discriminazione vissuta negli spazi pubblici (per strada, sui mezzi di trasporto, nei locali aperti al pubblico, ecc.) che può avvenire in maniera differenti. In questi luoghi non è così inusuale ricevere commenti sgradevoli, offese o insulti, sguardi inappropriati, gesti offensivi, visto che questo è successo ad 1 intervistato su 2. Le persone di origine africana sono più colpite di altre da situazioni discriminatorie di questo tipo.

La maggior parte delle persone (57%) è consapevole del fatto che una discriminazione può essere denunciata, tuttavia solo una parte (il 41%) saprebbe a chi rivolgersi. Tra le risposte prevalgono le forze di polizia e i carabinieri (44%), seguiti a distanza da altre realtà: associazioni che operano contro le discriminazioni o che aiutano i migranti a vario titolo (16%), ASGI (10%), Unar (9%), avvocati (6%), amici e conoscenti (6%).

Gli intervistati che sono da più tempo in Italia, ad esempio, non mostrano livelli di discriminazione particolarmente più bassi di chi è in Italia da meno tempo. La stabilizzazione sul territorio, l’essere in Italia da molti anni con un buon livello di inserimento sociale e lavorativo non comportano grandi differenze in termini di discriminazione: nulla pone al riparo dalla possibilità di essere discriminati se si ha un certo colore della pelle, se si indossa il velo o si ha un nome particolare.

Il fenotipo ha un peso significativo, esiste ancora una “linea del colore” in base a cui le persone sono maggiormente discriminate, come emerge dall’analisi dei paesi di provenienza: le persone di origine africana sono maggiormente penalizzate, in particolare quelle che provengono dall’Africa  sub-sahariana. Se gli africani sono i più discriminati, la vicinanza somatica al “bianco” costituisce un vantaggio solo in certi casi. A riprova di ciò si consideri il fatto che le persone provenienti dai Balcani (in particolare gli albanesi) hanno tassi più alti di discriminazione percepita, dovuti anche ad una lunga retorica pregiudizievole negli anni passati; gli intervistati dell’Europa dell’Est o dell’Europa (UE) al contrario sono indubbiamente più al riparo dal rischio di discriminazione, dal momento che mostrano sempre tassi al di sotto della media.

Complessivamente ciò che emerge dalla ricerca è l’esistenza di una realtà di discriminazione dalle molte sfumature che, pur nutrendosi da radici comuni di pregiudizio, si manifesta in modalità differenti, colpendo soprattutto alcune categorie di popolazione con background migratorio.
 

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