Pubblicato il: 22/04/2022
Un fringuello alpino - Foto Mattia Brambilla

Un fringuello alpino - Foto Mattia Brambilla

La pernice bianca, lo spioncello, il sordone e il fringuello alpino, quattro specie di uccelli associate agli ambienti alpini e ai climi freddi che li caratterizzano, sono a rischio estinzione a causa dei cambiamenti climatici in atto negli ambienti di alta montagna sulle Alpi, dove gli effetti del riscaldamento globale sono più evidenti. Tuttavia, possono sopravvivere grazie alla salvaguardia di circa 15,000 km2 di rifugi climatici, ovvero aree che rimarranno idonee per queste specie a prescindere dal modello climatico considerato.

Lo studio internazionale, coordinato da Mattia Brambilla ricercatore in Ecologia presso il dipartimento di Scienze e Politiche ambientali dell’Università Statale di Milano, è stato appena pubblicato su Global Change Biology.

La ricerca ha utilizzato modelli di distribuzione particolarmente accurati, realizzati grazie a decine di migliaia di dati di distribuzione relativi alla presenza di queste specie su tutto l’arco alpino, ottenuti da numerosi portali web di citizen science utilizzati da ornitologi professionisti e amatoriali. I modelli di distribuzione, basati su variabili climatiche, topografiche e di uso del suolo, sono stati “proiettati” su diversi scenari rappresentanti le condizioni attuali e quelle future, permettendo così di valutare le probabili variazioni nell’areale delle diverse specie. Dalla situazione attuale al periodo 2041-2070, tutte e quattro le specie considerate andranno incontro a una modifica della distribuzione sulle Alpi, con un innalzamento della quota media di presenza, che potrà oltrepassare i 400 m nei casi più estremi. Con la parziale eccezione dello spioncello, queste specie subiranno anche una contrazione della superficie di aree idonee, compresa tra il 17% e il 59% a seconda delle specie e degli scenari climatici.

In questo quadro poco incoraggiante, ma purtroppo in linea con quanto lecito attendersi per queste specie, emerge un risultato che fa sperare e, al tempo stesso, chiama all’azione: circa 15,000 km2 di territorio alpino risultano idonei per queste specie nelle condizioni attuali e lo rimarranno anche in futuro, a prescindere dal modello climatico considerato. Si tratta quindi di siti di cruciale importanza per la conservazione degli ecosistemi alpini e della biodiversità di alta quota. Il 44% di queste aree è attualmente incluso in aree protette, ma anche il restante 56% dovrebbe essere tenuto in debita considerazione, considerata l’importanza di tali siti.

“Ipotizzare come la distribuzione delle specie d’alta quota cambierà, e quali aree continueranno a offrire condizioni idonee anche in un futuro caratterizzato da un clima più caldo, è di fondamentale importanza per la conservazione di questi organismi sensibili alle variazioni ambientali. Queste aree rappresentano dei “rifugi climatici” per la biodiversità alpina e devono essere salvaguardati, evitando alterazioni significative causate dalle attività umane e degrado degli habitat”, commenta Mattia Brambilla.

Il concetto di “rifugio climatico”, sempre più frequentemente utilizzato nella letteratura ecologica in relazione agli effetti del climate change, indica quelle aree che sono in grado di mantenere le proprie caratteristiche fondamentali nonostante il cambiamento climatico, consentendo così la persistenza di organismi o risorse importanti da un punto di vista ecologico, fisico o socioculturale.

“La conservazione di queste aree assume significato ancora più rilevante se pensiamo che le Alpi, grazie alla loro estensione ed elevazione, rappresentano di fatto la sola catena montuosa in Europa in grado di offrire una simile quantità di rifugi climatici per le specie minacciate dal riscaldamento globale”, continua Brambilla.

“Questo studio dimostra, ancora una volta, il fondamentale contributo che la citizen science e i dati raccolti da volontari e appassionati birdwatcher possono fornire per lo studio della biodiversità e dei fenomeni ecologici su vasta scala geografica”, conclude Diego Rubolini, professore associato di Ecologia presso il dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali e co-autore dell’articolo.

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