Pubblicato il: 11/06/2021
Immagine tratta da Pixabay

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Le restrizioni alla possibilità di lavorare, previste in molti Stati europei (nel 2015 solo Grecia, Norvegia, Portogallo e Svezia non prevedevano divieti), per le persone richiedenti asilo, al loro arrivo nei Paesi che li ospitano, causano un danno non solo a costoro, ma anche alle economie dei Paesi che le attuano. E’ quanto evidenzia uno studio, pubblicato sulla rivista JEEA (The Journal of the European Economic Association) condotto da un gruppo di studiosi, tra cui Tommaso Frattini, docente di Economia politica presso il dipartimento di Economia, Management e Metodi Quantitativi (DEMM) della Statale.

Lift the Ban? Initial Employment Restrictions and Refugee Labour Market Outcomes” è il titolo del lavoro condotto da Tommaso Frattini con Francesco Fasani, professore associato alla Queen Mary University di Londra, e da settembre in Statale come professore associato al dipartimento di Economia, Management e Metodi Quantitativi, e Luigi Minale, professore associato alla Universidad Carlos III di Madrid, che mette in luce le conseguenze negative nel medio e lungo periodo di queste scelte restrittive.

Lo studio ha analizzato le politiche degli Stati europei in materia di lavoro dei richiedenti asilo e contestualmente la situazione occupazionale dei rifugiati nell’Unione Europea. Dall’analisi dei dati è emerso che le restrizioni imposte a oltre un milione di richiedenti asilo arrivati in Europa tra il 2015 e il 2016 ha avuto conseguenze significative sulle economie dei Paesi europei e potrebbe causare una perdita complessiva di oltre 37 miliardi di euro in otto anni.

Secondo lo studio, se a un richiedente asilo viene vietato di lavorare nei primi mesi di vita nel suo nuovo Paese, infatti, le probabilità che trovi un’occupazione negli anni successivi al divieto si riducono del 15 per cento; inoltre, la minor partecipazione dei rifugiati al mercato del lavoro condiziona il processo di integrazione con un rallentamento calcolato in 4 anni “di ritardo”.  I divieti, quindi, si rivelano un boomerang per gli Stati che li attuano, anche in considerazione del fatto che il numero di richiedenti asilo non sarebbe tale da poter influenzare la situazione occupazionale della popolazione residente.

Da qui, per i ricercatori, la necessità di rimuovere questo di tipo limitazioni alla luce dei benefici, molti, e dei costi, nulli, di questa scelta. Alcune restrizioni, perlomeno temporali, sono comunque cadute in questi anni anche alla luce di due direttive UE, non vincolanti, che nel 2003 e nel 2013 hanno invitato gli Stati membri a non superare prima i dodici e poi i nove mesi di divieto. L’Italia le ha recepite entrambe e oggi ha un divieto di due mesi, tra i più brevi del continente.

Il link allo studio pubblicato su JEEA

Contatti

  • Tommaso Frattini
    Dipartimento di Economia, Management e Metodi Quantitativi