Pubblicato il: 25/03/2021
Analisi al microscopio

Analisi al microscopio

Il mieloma multiplo è il secondo tumore delle cellule del sangue per frequenza, e al momento non esistono cure capaci di guarire la malattia. Con l’avvento di nuovi farmaci la sopravvivenza mediana è tuttavia migliorata, da circa 3 anni nei primi anni del 2000 a 7-10 anni per i pazienti diagnosticati oggi.

Una forma pre-tumorale, precursore del mieloma multiplo, è la gammopatia monoclonale di incerto significato o MGUS: questa forma, che colpisce circa il 5% delle persone con oltre 70 anni di età, evolve in mieloma multiplo solo in una piccola minoranza dei casi.

Data l’assenza di cure per il mieloma multiplo, i pazienti affetti da MGUS sono sottoposti a controlli periodici, al fine di individuare il più tempestivamente possibile quali casi progrediranno verso forme aggressive e quali invece rimarranno silenti. Ad oggi, non esistono test di laboratorio che consentano di prevedere con accuratezza l’evoluzione della MGUS.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Communications da Niccolò Bolli, docente del dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia dell’Università Statale di Milano e da un team internazionale di colleghi europei e statunitensi, ha esaminato l’ipotesi che i segni di una futura evoluzione potessero essere nascosti nel DNA delle cellule di MGUS già al momento della diagnosi. 

Lo studio è frutto di una collaborazione internazionale co-diretta dal Prof. Bolli insieme al Prof. Francesco Maura, che si è formato all’Università di Milano prima di trasferirsi all’Università di Miami pochi anni fa. Il finanziamento è stato in parte fornito dal Consolidator Grant ottenuto dal Prof. Niccolò Bolli nel 2019 da parte dello European Research Council (ERC). I campioni sono stati forniti dall’Università di Hasselt, in Belgio.

In questo studio, i ricercatori hanno utilizzato tecniche innovative per analizzare l’intero genoma delle poche cellule pre-tumorali nei casi di MGUS. Molto lavoro è stato necessario per sviluppare metodiche per la separazione di queste rare cellule e l’analisi di piccolissime quantità di DNA. Lo studio ha evidenziato come nelle forme di MGUS stabili per decenni, ovvero la grande maggioranza, le cellule della MGUS hanno poche anomalie. Nei rari casi di progressione invece, sono state trovate nel DNA le anomalie tipiche delle forme tumorali vere e proprie, che però dal punto di vista clinico si sarebbero evidenziate solo anni dopo. Potenzialmente, queste ricerche potrebbero aprire la strada a futuri test diagnostici basati sulla genetica per predire con maggiore accuratezza il rischio di ogni paziente già dal momento della diagnosi.

Ulteriori studi per confermare ed estendere queste osservazioni sono già in corso grazie alla collaborazione tra l’Università Statale di Milano e il Policlinico di Milano, dove il Prof Bolli lavora all’interno dell’equipe guidata dai Proff. Luca Baldini e Antonino Neri. All’interno di uno studio biologico, tutti i pazienti afferenti all’ambulatorio delle gammopatie monoclonali guidato dalle dottoresse Alessandra Pompa e Loredana Pettine sono sottoposti ad un’accurata profilazione genomica, e metodiche diagnostiche attraverso la biopsia liquida su sangue sono allo studio per i pazienti affetti da queste forme asintomatiche.

“Le implicazioni di queste ricerche sono potenzialmente di grande impatto – commenta Niccolò Bolli – esse vanno infatti dalla possibilità di capire meglio i meccanismi di insorgenza del mieloma multiplo, a quella di prevedere con maggior accuratezza quali pochi pazienti avranno purtroppo una evoluzione della propria MGUS. Tramite una migliore stratificazione dei pazienti si potrà razionalizzare, e forse ridurre, la spesa sanitaria in test diagnostici e ridurre l’ansia che caratterizza molti pazienti al momento della visita di controllo. Infine, nuove terapie di prossima e futura introduzione potrebbero un giorno essere testate nelle fasi più precoci e asintomatiche del mieloma multiplo per migliorare la sopravvivenza di questi pazienti e forse anche raggiungere l’obiettivo della cura”.

Lo studio pubblicato su Nature Communications.

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