Pubblicato il: 19/12/2023

Michele Orsi ha lavorato per sei mesi a Freetown, in Sierra Leone, presso il Princess Christian Maternity Hospital, il maggiore centro di riferimento materno-infantile del Paese. In Africa è arrivato nel 2019, al quarto anno di specializzazione in Ginecologia e Ostetricia presso l’Università Statale di Milano. Per Adriano La Vecchia, invece, la meta è stata l'Etiopia. Nel 2022 ha prestato servizio nell’ospedale generale di Jinka, nella regione del Sud Omo, nel reparto di Pediatria e Neonatologia. 

I due medici, che hanno condotto i propri studi in Statale e che oggi hanno concluso i loro percorsi di specializzazione, ci raccontano la loro esperienza umana e di formazione da Milano all’Africa; laddove di medici ce n’è più bisogno. Esperienze possibili grazie alla collaborazione tra l’Università Statale di Milano e l’organizzazione CUAMM Medici con l’Africa.

La collaborazione tra l’Ateneo e CUAMM, consolidata da anni, prevede, infatti, una serie di azioni e iniziative di sensibilizzazione sui temi della salute globale e della cooperazione sanitaria, con la possibilità di tirocini e attività di formazione per studentesse e studenti della Statale e anche per medici africani che lavorano nelle strutture dove opera CUAMM. In particolare, è attivo il progetto JPO, "Junior Project Officer", che offre l'opportunità, agli specializzandi che intendono prepararsi per un futuro impegno di cooperazione sanitaria internazionale, di fare un'esperienza in Africa riconosciuta nel loro percorso di giovani medici. Il progetto, che prevede attività di formazione prima della partenza, si rivolge in particolare a specializzandi di Chirurgia, Ginecologia e Ostetricia, Igiene e Medicina Preventiva, Malattie Infettive e Tropicali, Area internistica, Pediatria.

Si tratta di un importante tassello nell’offerta di mobilità internazionale dell'Ateneo e di progetti centrali per favorire lo scambio continuo di competenze sanitarie tra Italia ed Africa anche nella direzione di una forte attenzione alla salute globale, tema al centro anche del Master in Global Health della Statale, coordinato dai professori Andrea Gori e Mario Raviglione.  In prima fila, a sostegno di questa collaborazione è Stefania Recalcati, medico ricercatore, docente di Patologia Generale presso il dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute

Michele Orsi con i colleghi dell'ospedale di Freetown, Sierra

Michele Orsi con i colleghi dell'ospedale di Freetown, Sierra Leone - Credit foto CUAMM

Michele Orsi si è laureato all'Università Statale nel 2014 e si è poi specializzato in Ginecologia e Ostetricia nel 2020. Oggi lavora presso l’unità di Ostetricia della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e segue progetti di ricerca di salute globale con Medici con l’Africa CUAMM di Padova.

L’approccio alla cooperazione mi ha subito colpito – spiega, ripercorrendo la sua esperienza con CUAMM -. La prima lezione dell’attività di formazione prima della partenza non è stata di  medicina, ma di antropologia. Identificato un bisogno, prima di proporre un progetto, infatti, bisogna conoscere la realtà locale, le culture e le tradizioni, altrimenti il rischio è che il progetto fallisca”. 

Michele è, quindi, partito nel 2019, per la Sierra Leone dove ha lavorato per sei mesi presso il Princess Christian Maternity Hospital della capitale Freetown. “Dopo la guerra civile e l’epidemia di Ebola, il governo della Sierra Leone ha chiesto al CUAMM di supportare questo ospedale universitario in capitale perché versava in condizioni davvero difficili. Forniture di acqua e corrente discontinue, personale sanitario insufficiente, per non parlare di farmaci e diagnostica, tassi di mortalità materna e perinatale tra i più alti del mondo. Con l’aiuto e supervisione della mia tutor, ho supportato l’attività clinica e la formazione dei medici locali, organizzando anche un corso di ecografia ostetrica. Mi è capitato più volte di dover finire un cesareo con la lampada frontale o la torcia del cellulare di un infermiere per i black-out continui, o di donare il sangue per le trasfusioni, ma vietato scoraggiarsi”, racconta. 

L’Africa è diventata più di un’esperienza di formazione: “Una volta specialista, sono ripartito per lo stesso ospedale nel 2022. Le responsabilità erano molto diverse: accanto al lavoro clinico, supportavo l’ospedale per training del personale medico e non, per il miglioramento della qualità e prevenzione delle infezioni, ordini dei farmaci, e non ultimo la ricerca operativa. Abbiamo portato avanti diversi progetti di ricerca per poter migliorare il nostro lavoro sulla base delle esigenze di quello specifico contesto. Ancora una volta è stata una opportunità di dare e ricevere molto, sul piano lavorativo e umano, dovendo affrontare a volte un carico emotivo difficile da sostenere”, racconta. 

Nella difficoltà di un contesto come quello dove operava, però, Michele ha trovato grande gratificazione, umana e lavorativa: “A mia volta, concluse le mie esperienze, sono diventato tutor di una JPO, un compito tutt’altro che semplice. Una volta abbiamo visitato insieme una donna che aveva avuto una drammatica infezione, probabilmente predisposta dal travaglio prolungato prima del trasferimento da noi per il cesareo. La ferita aveva compromesso la parete addominale al punto di non potersi chiudere, per cui il destino di questa mamma sembrava segnato. Tuttavia, le ho raccomandato di non perdersi d’animo e continuare a curarla come sapeva fare. Le ho fatto capire che a volte, col tempo, possiamo essere sorpresi. Dopo un mese di medicazioni e antibiotici, la pelle era gradualmente ricresciuta e la ferita si era  rimarginata: la mamma, anche se un po’ zoppicante, è stata dimessa con la sua bimba”. 

Lavorare coi colleghi africani è costantemente una opportunità, di condividere le proprie conoscenze e soprattutto di imparare. Ci aiuta ad aprire lo sguardo sul mondo, a capire che non c’è una cultura giusta e una sbagliata, ma storie, lingue, cibi e tradizioni da scoprire. I medici, poi, hanno il privilegio di essere in contatto diretto con i pazienti e i colleghi locali, rendendo questo scambio inevitabile e affascinante”.

Adriano La Vecchia con un collega nell'ospedale di Jinka, Etiopia  - Credit foto CUAMM

Adriano La Vecchia con un collega nell'ospedale di Jinka, Etiopia - Credit foto CUAMM

Adriano La Vecchia ha conseguito il titolo di specializzazione a novembre 2023 all’Università Statale di Milano, è medico specialista in Pediatria e Neonatologia e lavora presso il Pronto Soccorso Pediatrico della IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.  Attualmente frequenta un Dottorato di Ricerca in “Public Health Epidemiology, Statistics and Economics” presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. 

A gennaio 2022, al quarto anno di specializzazione in Pediatria, sono partito per la cittadina di Jinka, in Sud Omo, una regione sempre poco considerata dal governo centrale e dalle organizzazioni internazionali, con una popolazione rurale in disperato bisogno di salute", ci racconta Adriano che, per sei mesi, ha lavorato nell’ospedale generale di Jinka nel reparto di Pediatria e Neonatologia. "In particolare il mio periodo da JPO è coinciso con l’apertura della Terapia Intensiva Pediatrica (Pediatric Intensive Care Unit, PICU) che è stata la mia principale attività clinica. Il team CUAMM era composto unicamente da me e la mia tutor, Eleni Hagos, una pediatra del nord dell’Etiopia assunta da CUAMM in appoggio al personale dell’ospedale. Oltre ad Eleni – racconta ancora Adriano -, nell’ospedale di Jinka vi era unicamente un altro pediatra; il resto dello staff medico era composto da General Practitioners. Le differenze rispetto al contesto di lavoro milanese sono abissali: i pazienti pagano per le cure (il posto letto, i farmaci, le siringhe, i guanti..), le possibilità diagnostiche sono molto limitate (gli unici esami ematochimici erano l’emocromo, la creatinina e le transaminasi, anch’essi non eseguibili tutti i giorni, mentre a livello di imaging vi era un vecchio ecografo e la radiografia, refertate da un professionista sanitario e non da un radiologo), un medico da solo deve seguire circa trenta pazienti per turno e le strutture sono spesso fatiscenti. Anche la casistica è molto diversa, con molti casi di malattia infettive come la Leishmaniosi profonda, il tetano neonatale e il tifo. Inoltre il Sud Omo è abitato da diverse tribù che non parlano l’amarico, redendo la comunicazione impossibile anche fra locali”.

Luoghi dove fare il medico è più di una professione, con il carico di difficoltà pratiche e di sofferenza che si incontra: “La paziente che più di tutti ricordo quando ripenso alla mia esperienza a Jinka è Netsanet, una bambina di circa un anno ustionata in un incidente domestico. Netsi è stata la prima è paziente ricoverata in PICU ed è stata con noi per circa un mese, durante il quale la madre ha partorito un fratellino. Fortunatamente, grazie ad una particolare attenzione e dedizione del personale infermieristico, non ha contratto infezioni gravi durante le medicazioni ed è sopravvissuta. Altri pazienti invece non ce l’hanno fatta. Come ripeto sempre a chi mi chiede consiglio prima di partire, lavorare come medico in Africa Sub-Sahariana ti espone a un contatto in prima persona con la morte di neonati e di bambini. Nonostante lo sconvolgimento emotivo che vivere questa profonda ingiustizia dei nostri tempi possa provocare, consiglierei a  chiunque se la senta di partire. Esporsi a una cultura così diversa - spiega - è un’esperienza arricchente a livello umano e medico. Da un punto di vista medico, anche da specializzando si ha la possibilità di gestire in autonomia i pazienti del reparto, responsabilizzandoti molto più di quanto accade nei nostri ospedali. Inoltre, si impara a lavorare con le poche risorse a disposizione e ad evitare gli sprechi: lezione da importare anche nel nostro contesto di sanità pubblica. Da un punto di vista umano l’Africa è una continua scoperta, un luogo con bellezze e colori incredibili accompagnate da povertà e sofferenza, ma anche da continua resilienza e frugale felicità”.