Pubblicato il: 09/01/2018
Moon at Concordia©PNRA-IPEV, 2015

Moon at Concordia ©PNRA-IPEV, 2015

Una nuova ricerca di Università Statale di Milano, Istituto di Bioimmagini e Fisiologia Molecolare (IBFM) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), ASST Santi Paolo e Carlo ed Agenzia Spaziale Europea (ESA) - pubblicata su Scientific Reports - conferma l'impossibilità per l'uomo di adattarsi all'alta quota, anche se moderata.

Lo studio è stato condotto in Antartide, presso la base permanente italo-francese Concordia situata sull'altopiano di Dome, che durante il periodo invernale può ospitare fino a 16 persone in condizioni confortevoli.

Ospiti della base Concordia, le 13 persone coinvolte nello studio per 10 mesi invernali tra il 2014 e il 2015, sono stati sottoposti a una condizione di ipossia (mancanza di ossigeno) - dovuta all'altitudine e alla ridotta densità dell'aria - paragonabile a quella che si verifica a 3800 m nel resto della Terra.

Base Concordia in Antartide

Concordia Base - Foto per gentile concessione di Beth Healy ©PNRA-IPEV, 2015

La permanenza a tale quota induce cambiamenti fisiopatologici che, però, nella base Concordia possono essere analizzati in assenza di quei fattori di disturbo che si verificano nelle zone montuose della Terra come freddo, repentini cambi di quota, sforzi fisici, alimentazione irregolare e stress psicofisico.

Come previsto dal team di ricerca, nelle prime settimane di esposizione all'ipossia dei 13 soggetti coinvolti si è notato un aumento della capacità del sangue di trasportare ossigeno e un aumento del pH ematico (alcalosi), modificazioni utili per preservare la funzionalità dei tessuti.

Il dato interessante, però, è che tali cambiamenti non si sono risolti nel tempo, ma le persone hanno continuato a mostrare un'elevata presenza di globuli rossi e alcalosi anche dopo 10 mesi di permanenza alla base Concordia, dato che dimostra l'impossibilità di chi soggiorna per periodi prolungati ad alta quota di adattarsi, esponendosi inoltre a fattori potenzialmente pericolosi per l'apparato cardiovascolare (dovuti all'aumentata viscosità del sangue) e per la funzionalità renale e cerebrale (conseguenti all'alcalosi).

"I risultati di questo studio – commenta Michele Samaja, docente di Biochimica in Statale e tra i membri del team di ricerca insieme alla dottoressa Laura Terraneo e alla professoressa Silvia Della Bella, ricercatrici presso i dipartimenti rispettivamente di Scienze della salute e di Biotecnologie mediche e Medicina traslazionale - sono di interesse non solo per coloro che per motivi professionali, sportivi o ricreativi si espongono alle alte quote, ma anche per i pazienti affetti da malattie polmonari ed ematologiche che impediscono la normale ossigenazione del sangue. Questi dati, inoltre, saranno utili per la pianificazione dei futuri viaggi spaziali, dove gli astronauti saranno esposti a una ridotta pressione di ossigeno all'interno delle navicelle o delle basi extraterrestri".

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